Un percorso fascinoso e insieme rigoroso ci propone Luca Poma, in collaborazione con Giorgia Grandoni. Proprio per la sua ottica: perché questo volume da un lato ci proietta sulle frontiere più innovative del management, dall’altro ci fa riflettere su alcuni fondamentali della relazione e dell’ethos personale e collettivo. Un percorso sinuoso ed elegante, ma anche franco ed esigente, che suggerisce un triplice esercizio.
Il primo è basicamente informativo e formativo. D’altra parte ci troviamo in un campo di innovazione continua, da seguire sincronizzandoci con un moto accelerato. Anche perché si tratta – ed è il secondo esercizio cui siamo sollecitati – di un campo trans-disciplinare, che gli autori sviluppano in molteplici direzioni. Il terzo esercizio, riporta al Sallustio facile facile che di Catone (il minore, l’Uticense) diceva “esse quam videri bonus malebat”. Questo motto, di origine ciceroniana, nell’ambiguità del presente ci conferma che il mondo digitale, pur del tutto nuovo, non può non riportarci ai grandi temi di fondo. Da affrontare, come questo volume ci suggerisce e ci dimostra, in senso radicalmente antimoralistico, perché il moralismo è l’inganno del politically correct. Del resto il tonitruante mondo del videri richiama necesariamente la realtà dell’esse, falsificando, appunto, qualsiasi moralismo.
Ammoniva uno dei più straordinari intellettuali dell’Europa contemporanea, Chesterton, in Orthodoxy, oltre ormai un secolo fa: “the modern world es full of the old Christian virtues gone mad”. Una felice espressione da prendere proprio con l’ironia di questo grande autore: non si tratta infatti di una affermazione banalmente deprecatoria. Queste old Christian virtues in realtà sono lì, squadernate allora come anche ora, davanti a noi: le possiamo guardare da una parte o dall’altra, come le due facce della luna.
Esse e videri sono termini di comparazione per Sallustio, ma sono anche due facce della stessa realtà, come in concreto di queste “vecchie virtù”, integre o impazzite che siano, stanno sempre lì, e ogni epoca è chiamata a maneggiarle, a gestirle: non a caso, il verbo e l’azione che sta alla radice della parola inglese, ormai parola universale, che detta il titolo di queste pagine suggestive. Che, proiettandoci nel presente accelerato, così da poterlo padroneggiare efficacemente, ci impongono stereofonicamente di ragionare sulle fondamenta. E, così, riscoprire un’etica non moralistica, ruvida quanto basta e perciò realistica e dunque utile, capace davvero di remunerare. Tale, insomma, da rendere a ciascuno il suo, e produrre beni durevoli e guadagni per tutti.
Questo lavoro del prof. Poma compare in un momento molto particolare, nel pieno della grande epidemia del xxi secolo, cento anni dopo quella del xx. Un tempo pieno d’interrogativi, a proposito dei quali la parola “verità”, che ricorre almeno una decina di volte in queste pagine dense e vivaci, continua a interrogarci, a sollecitarci, a pungolarci all’operosità.
Prof. Francesco Bonini
Magnifico Rettore Università LUMSA
In un periodo tempestoso e irrazionale, ricco di urla e strepiti in larga parte poco comprensibili, finalmente in questo libro il lettore può trovare una pacata, razionale, dettagliata, esaustiva e intellegibile analisi delle dinamiche relative alla costruzione e alla difesa della reputazione di un soggetto, persona o organizzazione che sia.
Tutti sappiamo che le frottole pullulano, e in questo ultimo decennio abbiamo razionalizzato per certi versi l’utilità che proprio la costruzione della nostra reputazione – anche a causa del pregiudizio confermativo incentivato e spinto dai social media – ci induce anche a raccontarle e diffonderle, quelle frottole.
Perfino Warren Buffet, l‘oracolo di Omaha, ci casca, quando gli si attribuisce – e lui non smentisce, perché immagino che qualche suo spin doctor gli abbia suggerito di non farlo… – la paternità dell’affermazione che “la reputazione si costruisce in anni di duro lavoro, e si distrugge in un attimo”.
Suggestivo, e talvolta, in passato, è anche stato così; ma è altrettanto vero il contrario, in particolare oggi, grazie alla velocità di circolazione delle voci e degli avvenimenti online.
Evidentemente, quella che con buona dose di eufemismo molti definiscono narrazione o storytelling – la persona, l’organizzazione, i bot: tutti insieme? – si nutre delle stesse nostre banalità: anche perché spesso, come questa di Buffet, “suonano bene” e sono “politicamente corrette”: in fondo, l’autentica ragione che legittima poi i nostri quotidiani disastri comunicativi.
Prima della pandemia di covid-19 avevamo anche imparato che identità, immagine e reputazione sono fasi diverse e distinte dell’epigenetica di una persona/organizzazione, variazioni geniche sensibili ma che non alterano la sequenza del dna, dove l’identità è quel che definisce e identifica il soggetto; l’immagine è ciò che i pubblici percepiscono del soggetto; la reputazione è quel che gli altri ne dicono, ovvero un giudizio, rafforzato poi dalla reputazione di chi lo esprime.
Nel 1994, in The Balanced Scorecard Kaplan e Norton scrivevano “You can’t manage what you can’t measure, and you can’t measure what you can’t describe”, ovvero, sommariamente tradotto: “Non puoi gestire ciò che non puoi misurare, e non puoi misurare ciò che non puoi descrivere”. Oggi quel principio è sempre valido, ma l’enfasi sulla misurazione si è spostata a favore della valutazione, visto il ruolo crescente del valore attribuito ai cinque capitali intangibili delle organizzazioni (umano, finanziario, reputazionale, sociale e relazionale) In sintesi, è diventato fondamentale valutare per sé stessi, per l’organizzazione e per gli altri, e poi, quando le risorse lo consentono, anche misurare.
Ma in termini di misurazione, i conti tornano: per la Procter&Gamble, un dollaro investito in relazioni pubbliche a supporto del marketing produceva dieci anni fa 2.8 dollari di vendite, contro i 110 centesimi della pubblicità e gli 85 centesimi della promozione pura e sempre; lo stesso anno, la United Technologies dichiarava che il 27% del suo valore di capitalizzazione di borsa era attribuibile alla sua narrativa (!)
È assodato che per arrivare a una valutazione competente occorre impegnarsi a valutare il valore economico – e non – di tutte le attività, e considerare anche il valore della tecnologia digitale che, da mero supporto tecnico, è divenuta oggetto di valutazione. Ma non basta, perché occorre anche valorizzare la componente relazionale dello stesso processo di valutazione indagando su almeno quattro variabili: il livello percepito di fiducia reciproca fra i soggetti di una relazione; il livello di reciproca soddisfazione dei soggetti sullo stato della relazione; l’impegno reciproco impegno sulla qualità della relazione; l’equilibrio reciproco di potere percepito fra I soggetti coinvolti nella relazione.
In sintesi è fondamentale valutare per sé, per l’organizzazione e
per gli altri. Per il suo primo secolo e mezzo di vita, la comunità professionale delle relazioni pubbliche non ha voluto approfondire il tema, per questioni legate – che bell’alibi – all’etica professionale, poiché influenzare con strumenti inappropriati i comportamenti e le opinioni dei decisori, degli stessi influenzatori e degli stakeholder, implicava
allora comprarli.
Un senso di colpa? Forse.
Molte caratteristiche di qualità attribuite alle relazioni pubbliche – creatività, abilità nel costruire e sostenere relazioni, capacità nella comunicazione interpersonale e un dono per la parola scritta – sono sempre essenziali, ma richiedono oggi una forte accelerazione, maggiore agilità e potere decisionale.
Ed è qui dove tecnologia, dati, e capacità di analisi assistita dal digitale diventano essenziali per governare e decidere nei tempi necessari: oggi, possiamo navigare tracciando una rotta con minori sprechi, maggiore efficacia e più convinzione.
Eppure per generare intuizioni sensate e utili, siamo anche chiamati a “sfidare i dati disponibili”, investigando sulle loro origini, come sono stati elaborati e se sono sufficientemente attendibili per ispirare decisioni. In breve è indispensabile anche una visione critica, per comprenderne a fondo il significato.
Da relatori pubblici, svolgiamo sovente un ruolo di consiglieri in processi di pianificazione strategica. Tocca a noi organizzare e promuovere opportunità per lo sviluppo di alleanze con le funzioni del marketing, della finanza e altre funzioni orientate a sviluppare ragionevoli asssunzioni di rischio e di abilitazione di cambiamenti.
Una collaborazione che richiede trasformazione e crescita, sapendo che le probabilità per un’integrazione di succcesso aumentano quando lo scambio di dati guida la conversazione fra i soggetti. Le domande che dobbiamo porci per legittimare maggiori investimenti in relazioni pubbliche diventano quindi: a quale livello integriamo tecnologie, dati e intuizioni per meglio ascoltare e comprendere l’ambiente che ci circonda?
e nostre attività equlibrano il massimo di strumenti e talenti disponibili? Come applichiamo I dati di analisi nei nostri processi decisionali esecutivi? Valutiamo gli impatti delle nostre azioni e dichiarazioni verso tutti gli stakeholder, ovunque essi siamo operativi? E in ultimo: fino a che punto i nostri dirigenti o mandanti ricorrono poi ai nostri consigli?
Il prefatore, con molto orgoglio, v’invita a compulsare questa autentica fonte di sapere: ne vale davvero la pena.
Toni Muzi Falconi
FERPI – Federazione Italiana Relazioni Pubbliche e Istituzionali