Introduzione

Della reputazione: dall’apparire all’essere, per guadagnare di più (tutti)

di Luca Poma

Nel titolo c’è tutto, o quasi. In oltre 30 anni di lavoro per contribuire a costruire reputazione, e con sempre maggiore intensità negli ultimi 15, ho condotto un’assertiva “crociata” (per alcuni troppo assertiva) fatta di incontri, scontri, convegni, lezioni, pubblicazione di articoli, saggi, libri e prese di posizione pubbliche: una specie di stimolante bulimia creativa orientata a tentare di far comprendere l’essenza del valore dell’essere più che dell’apparire, anche per cercare di comprendere se l’ossessione era solo mia e di pochi altri, o se le idee che caratterizzavano il nostro modo di vedere le cose – personale, quindi soggettivo per definizione – erano o meno realmente corrette dal punto di vista scientifico e condivisibili sul
piano valoriale.

Molte volte, nell’aula dell’università, mi sono sorpreso mio malgrado ad alzare troppo i toni, con enfasi, e a dovermi zittire per non generare sconcerto nei discenti: eccesso di passione, direbbe qualcuno. Invece è un altro, il tema: marcata insofferenza per il maquillage. D’altra parte, lo dico spesso bonariamente, i direttori marketing andrebbero “strozzati nella culla da piccoli”, con buona pace dei molti miei amici che fanno quella degnissima (e anche indispensabile) professione; perché è proprio, dobbiamo ammetterlo, dalla loro fame di numeri e di performance di breve termine (quello che con un termine azzeccatissimo l’economista Stefano Zamagni, in un’intervista che realizzai con lui per la Harvard Business Review”, definì shortermismo) derivano alcuni dei più noti disastri reputazionali di tutti i tempi.

Fu appunto la fame di utili a spingere gli analisti della Arthur Andersen a certificare per anni e anni i bilanci – falsi – del colosso delle telecomunicazioni USA Enron, e quando l’azienda dichiarò bancarotta (le bolle prima o poi esplodono sempre, come ci insegnò in casa nostra il monumentale scandalo Parmalat), essa si trascino dietro la società di revisione: un’azienda che affermò la propria leadership sul mercato per 120 lunghi anni, fallì in soli 120 giorni. E gli esempi potrebbero essere molti altri: dalla storica azienda che inventò il pandoro, la Melegatti, fallita in 2 anni – anche – a causa di dissennate operazioni di marketing, al colosso Volkswagen, che mentre vinceva premi su premi per la sua responsabilità sociale d’impresa (sic!) truccava i dati sulle emissioni di CO2 in atmosfera dei propri motori, vero e proprio Giano Bifronte che faceva dell’etica e della truffa, contemporaneamente, i propri driver di sviluppo; che dire del danno significativo (35% di perdite del valore di borsa) causato da queste malepratiche – volute, costruite, progettate, condivise ai più alti livelli aziendali, e per nulla casuali – sugli investimenti dei piccoli risparmiatori, famiglie e anziani che nelle azioni Volkswagen avevano investito parte dei propri risparmi? Non ho avuto modo di leggere una sentita assunzione di responsabilità, né delle sincere scuse, se non balbettanti affermazioni giustificatorie a margine di qualche conferenza stampa: business is business, e si ricomincia a macinare utili come se nulla fosse accaduto. E come dimenticare – sempre per non far nomi – il caso Glaxo, la multinazionale farmaceutica che alterò scientemente i dati necessari per ottenere l’autorizzazione all’immissione in commercio di un proprio psicofarmaco, non pubblicando due studi scientifici che dimostravano che il blockbuster antidepressivo Paxil® poteva indurre idee suicidarie nei bambini e adolescenti che ne facevano uso, e quindi era non solo inefficace (efficacia non superiore a un placebo, ovvero una pillola di zucchero) ma anche pericoloso? Ne derivò un processo, e poi la condanna a pagare la più alta multa mai comminata (all’epoca) a un’azienda farmaceutica, ma anche in questo caso, mai una parola sentita di commento; certo, difficile ricostruire autenticamente la propria reputazione dopo deragliamenti di questa portata. Meglio tacere… e riprendere a fatturare. Ebbene, la lista di esempi di comportamenti antisociali (e miopi) da parte delle aziende potrebbe continuare a lungo: quelle stesse aziende che costituiscono un nervo fondamentale e prezioso della nostra società, che sono parte integrante di una grande rete neurale complessa che avviluppa e tocca tutti noi, interdipendenti come siamo l’uno dall’altro, e che garantiscono sopravvivenza (e stipendi) a milioni di famiglie.

Per pochi malandrini, si dirà, ci sono anche molti virtuosi. È vero, ed è soprattutto a loro che parla questo libro: agli imprenditori coraggiosi che ogni giorno si mettono in gioco, inseguendo il sogno che li ha portati ad apporre molti anni addietro una firma sull’atto costitutivo della loro azienda, nello studio di un notaio, con l’idea – la convinzione – di poter fare bene, e di poter cambiare in meglio qualcosa… A loro deve andare tutto il nostro rispetto e la nostra ammirazione.

Tuttavia, non è basato lo straordinario lavoro di Robert Eccles a Harvard, pubblicato nel 2012 dopo 18 lunghi anni di analisi dei dati, a sfatare il mito dell’azienda “buona” per ragioni morali. Le aziende non devono essere “buone”: devono fare utili, per poterli così reinvestire nella propria mission e nella conseguente crescita della comunità. Tuttavia, può esistere un business dal volto umano?

È da tempo scientificamente dimostrato che le aziende che macinano migliori utili siano infatti proprio quelle più “buone”, o meglio, per dirla con linguaggio da addetti ai lavori, le imprese che hanno inserito preoccupazioni di carattere etico nel proprio business a livello strategico. Esatto, lo ripeto: queste sono le aziende nettamente più performanti, e sono gli studi scientifici a dimostrarlo. Il paper di Eccles ha confrontato un campione di centottanta aziende, novanta delle quali sono state classificate come imprese “ad alta sostenibilità” – quindi con percorsi e progetti di responsabilità sociale strutturati e attivi, consapevoli dell’importanza di inserire preoccupazioni etiche nel business – e novanta al contrario erano imprese “a bassa sostenibilità”, ovvero senza alcuna particolare sensibilità in tema di etica, e per contro molto marketing-oriented, attente alla massimizzazione del ritorno per gli azionisti nel breve termine.

I risultati hanno mostrato un risultato precedentemente intuito da molti addetti ai lavori, ma che fino a quel giorno mancava di conferma e di affidabile supporto scientifico: le imprese etiche e ad alta sostenibilità sovra-performano – sia sotto il profilo dei risultati contabili che di quelli di borsa, per circa il 25% – rispetto a quelle prive di percorsi codificati di questo genere. Circostanza questa che ha colpito l’immaginazione anche dei gestori dei fondi di investimento, fino a spingere l’amministratore delegato del più importante al mondo di essi, Blackrock, a ribadire ripetutamente nelle sue lettere di fine anno l’importanza dell’inserimento di preoccupazioni etiche nel business non per ragioni, appunto, morali, quanto piuttosto perché le aziende con questa sensibilità sarebbero le più resilienti e quindi le più interessanti per gli investitori.

I manager che sperano di ottenere un vantaggio competitivo nel breve periodo hanno però scarse probabilità di successo, se pensano di inserire la sostenibilità come keyword nella strategia della propria organizzazione senza nel contempo avviare cambiamenti strutturali sul modo che essa ha di narrare la propria identità e sul modo in cui l’organizzazione stessa si rapporta con i propri stakeholder.

Sono le politiche aziendali di alta sostenibilità che devono inevitabilmente riflettere la cultura di fondo dell’organizzazione, e non la cultura dell’organizzazione a dover essere “piegata” al servizio dell’immagine, per darsi una “mano di verde” e apparire più green e quindi più appetibile agli occhi di Clienti e investitori.

Ecco quindi i motivi per i quali non riesco – a volte – a non irritarmi lievemente. Perché la domanda è sempre e solo una, che mi tocca ripetere fino allo sfinimento: quanto qui sopra esposto, è poi così complicato da capire…?

John Fitzgerald Kennedy, in un suo celebre discorso, ripreso nel volume Sogno cose che non sono state mai, pubblicato da Einaudi nel 2012, disse:

Troppo e per troppo tempo abbiamo dato l’impressione di riporre l’eccellenza personale e i valori della comunità nella mera accumulazione di beni materiali. Il nostro prodotto interno lordo, ora, ha superato gli 800 miliardi di dollari l’anno, ma il pil – se intendiamo giudicare gli Stati Uniti d’America su quella base – comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per liberare le autostrade dalle carneficine. Mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte e le carceri per le persone che le forzano. Include la distruzione delle sequoie e la perdita nell’espansione caotica delle nostre meraviglie naturali.

Comprende il napalm, le testate nucleari e le autoblindo della polizia per reprimere le rivolte nelle nostre città. Include i fucili Whitman e i coltelli Speck, così come i programmi televisivi che glorificano la violenza in modo da vendere giocattoli ai nostri figli. Il pil non calcola, invece, la salute dei nostri figli, né la qualità della loro istruzione o la gioia nel loro giocare. Non include la bellezza della nostra poesia né la forza dei nostri matrimoni, l’intelligenza del nostro dibattito pubblico e l’integrità dei nostri pubblici funzionari. Non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio; né la nostra saggezza, né il nostro apprendimento; né la nostra compassione né la nostra devozione al paese; in breve, misura qualsiasi cosa, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta.

Visionario (infatti fece una brutta fine…) come anche Adriano Olivetti, del quale pure si parla in questo volume. Altro uomo nato un secolo troppo presto, capace di mettere a terra in modo efficace i concetti propri della responsabilità sociale d’impresa, 30 anni prima, forse più, della loro effettiva codificazione nel mondo mainstream delle relazioni pubbliche e della comunicazione. Ma a sua volta tre secoli dopo quell’Antonio Genovesi, economista italiano giustamente citato dall’imprenditore Massimo Mercati in un suo saggio, che già nel ’700, in pieno illuminismo “predicava” inascoltato sul tema della costruzione necessaria di una ”economia civile”, ovvero sull’importanza di un’economia finalizzata alla responsabile felicità delle persone, sostenibile in quanto capace di coniugare crescita economica ed equità sociale, all’insegna di parole chiave come reciprocità, fiducia e mutuo vantaggio.

Così facendo, aggiungo io, è possibile aumentare inevitabilmente il valore per gli azionisti, nel contempo assolvendo appieno al proprio ruolo sociale e generando benessere diffuso.

Chiudo questa forse troppo prolissa introduzione con un altro salto quantico, in termini di autorevolezza della fonte, sommessamente citando il nostro amato Pontefice, Papa Francesco, e la sua straordinaria Laudato si’. Enciclica sulla cura della casa comune.

Di fatto è la prima enciclica Papale incentrata sull’ambiente, scritta con il tentativo di riformulare la cura della terra come una preoccupazione morale e spirituale, e non solo come una questione di politica, scienza ed economia. Dalle città agli oceani, dalle foreste ai terreni agricoli, il Pianeta è in crisi: i sistemi economici favoriscono solo coloro che sono già ricchi e i sistemi politici – e le imprese, aggiungo io – che non hanno il coraggio di guardare oltre le ricompense a breve termine. Le sue 184 pagine sono un appello all’azione urgente,

sotto l’ombrello di una considerazione che se già era nota tra i più attenti degli addetti ai lavori, ritrova fortissimo vigore grazie all’autorevolezza della fonte: tutto è interconnesso, comprese le soluzioni alle gravi crisi che stiamo vivendo, non ultima, è bene aggiungere a qualche anno di distanza dal messaggio del Papa, quella, recente e angosciante, sia per la salute che per l’economia, generata dalla pandemia di covid-19.

Abbandonare il carbone, privilegiare l’energia delocalizzata, intraprendere
azioni incisive contro l’inquinamento, una rinnovata prudenza sugli ogm, ridurre il consumismo sfrenato, usare intelligentemente smartphone e gli altri gadget elettronici, evitando che essi rovinino il nostro rapporto con la natura e con chi ci circonda: questi e molti altri temi sono stati affrontati nell’enciclica di Francesco, con un implicito richiamo, che ho percepito, ai “decisori”, politici ma anche agli imprenditori, che realmente possono fare qualcosa per cambiare le cose.

Le imprese sono quindi chiamate a nuove responsabilità: e su questa chiamata alle armi, abbracciata da varie multinazionali che hanno mosso i primi passi sul fronte del brand-activism, si può e si deve lavorare per definire il perimetro reputazionale di un’organizzazione, che sia azienda, ministero, Ong o anche un singolo opinion-maker.

Questo volume, per la redazione del quale mi sono avvalso della preziosa collaborazione di Giorgia Grandoni, giovane valente e appassionata ricercatrice in questa stimolante materia, è anche un dignitoso riepilogo delle mie lezioni nelle aule universitarie, che – da ciò che loro stessi riferiscono – hanno appassionato le menti fresche dei ragazzi, plasticamente predisposte per costruire futuro. Ebbene, se questo lavoro editoriale ha uno scopo, seppure modesto, è questo: non solo insegnare tecniche e trasferire know-how, pure utile, ma far comprendere la bellezza del costruire la propria reputazione privilegiando non l’immagine, la pubblicità o il marketing fini a se stessi, bensì l’azione, il fare, e il raccontare bene ciò che si è fatto, partendo, sempre, dalla consapevolezza profonda e sentita della propria identità.

Resta aperta un’ultima domanda, tra quelle che più spesso mi sento rivolgere da imprenditori, influencer e discenti: quando far propria questa consapevolezza e cambiare registro. Perché l’Italia – non solo per il crisis management, che ha il suo fulcro nella previsione anticipata degli scenari di crisi, ma pià in generale per il reputation management, l’accorta e strategica costruzione del profilo reputazionale delle organizzazioni, è il Paese del “c’è tempo”, del “ora sono troppo impegnato”, del “a me non può succedere nulla di male” e “se proprio succederà, affronterò il problema a tempo debito”.

Tutti, dal primo all’ultimo, ingredienti essenziali per confezionare il perfetto disastro reputazionale.

A chi, poco saggio, accorto e prudente, cade vittima della tentazione di rimandare a un improbabile futuro l’attivazione di procedimenti di pensiero complesso funzionali a prendersi carico di queste preoccupazioni, rispondo con una frase che ho letto recentemente su un romanzo breve della colta e raffinata Dietrich (Barbara, non Marlene):

Prima che il passato prossimo diventi passato remoto, arriva il massacro dei giorni a scadere, e la consapevolezza che – voltandosi indietro – non
è rimasto nulla se non una casa vuota; sono andati tutti via, con infiniti sentieri alle spalle e solo una breve curva ancora da girare, prima di imboccare una strada senza uscita.


L’unica risposta alla domanda, quindi, è adesso: perché non è mai troppo presto per migliorarsi e per diventare realmente protagonisti della storia che gli altri racconteranno di noi.

Luca Poma